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Un tratto di strada con Mahmoud (e il mistero dei fuggiaschi greci)

Un giornalista dovrebbe viaggiare sempre con i mezzi pubblici. Facendo la strada più lunga.
Prendi un giorno che devi tornare da Taranto a Roma e ti svegli di buon’ora. Non sapevi dell’esistenza di treni diretti e hai un aereo che ti attende a Brindisi. Scopri che tra Taranto e Brindisi (Ionio – Adriatico) ci sono solo bus sostitutivi, nessun treno, e che per fare 70 chilometri possono volerci anche 5 ore, tra attesa del pullman e viaggio.
Ti godi comunque il paesaggio pugliese: campagne incantevoli, periferie molto brutte e piccoli centri belli ma deserti, sotto il sole canicolare. Il Sud.

Poi, mentre aspetti una navetta che ti porti all’aeroporto, a Brindisi, rannicchiato sul bordo di un marciapiede, in una strisciolina d’ombra, ti ritrovi in compagnia.
Non saprei dire se Mahmoud sia sceso da un’auto o sia arrivato a piedi, accompagnato da qualcuno. Ero un po’ distratto. Oppure ero intontito dal caldo. Bel volto bruno, 30anni forse, il naso storto da comico: mi ha chiesto più volte conferma del fatto che di lì passava proprio il bus per l’aeroporto. Parlava in un italiano più che incerto: si e no 10 parole. Ma siamo riusciti a farci lo stesso una lunga chiacchierata. La parola che diceva più spesso era “problem”: presto tutto diventava “problem”. E lui finiva nei guai.

Mi ha spiegato che era curdo ed era arrivato a Lecce dalla Turchia dopo 8 giorni di viaggio, circa 9 mesi prima, non ho capito quanti di quei giorni a bordo di un motoscafo. Che in Italia non c’è lavoro e per questo era pronto a volare in Svezia, a Malmö, dove lo aspettava una grossa comunità curda: lì tutti amici, vieni, dice, vieni. Che a Lecce aveva cercato inutilmente la stazione ma si era perso ed era stato fermato e portato in un centro di accoglienza. Poi, però, aveva avuto l’asilo politico. A questo punto ho capito: Mahmoud arrivava dalla Turchia ma era partito dalla Siria. Inutile cercare di farsi raccontare qualcosa della guerra. Per quello, non aveva abbastanza parole.

Arrivando all’aeroporto, la suola di una delle sue scarpe da trekking (pesantissime, per la stagione) si è scollata. Problem! ha esclamato.
Roba cinese, ho detto io. Ha storto la faccia, l’ha buttata via e ne ha tirato fuori un secondo paio dalla borsa, questa volta da ginnastica. Poi l’ho accompagnato al check in di una famosa compagnia low cost. Il biglietto, probabilmente, glielo avevano fatto gli amici di Malmö.
Ma le tre ragazze al banco non lo avrebbero lasciato passare facilmente. Una ha rapidamente ficcato in mano all’altra un foglio che mi è passato sotto il naso: un’informativa relativa a greci che viaggiano in Europa con documenti falsi. Pochi dubbi sul fatto che Mahmoud non fosse greco. E anche sulla bontà del suo documento di asilo politico.
Non può salire con lo zaino e la borsa – è scattata una delle tre, quasi per rivincita – ha diritto a un solo bagaglio, o fanno 53 euro.

Ho infilato la mano in tasca come Clint Eastwood che va al revolver. Non sono generoso, credetemi. Però l’impulso di zittirla in un decimo di secondo, con un solo gesto, era irresistibile.
Ma qui è intervenuto Mahmoud.
No problem, gli ho sentito dire. Si è sfilato lo zaino dalle spalle. Acqua e panini li ha messi da parte, li avrebbe consumati più tardi, aspettando il volo. Si è infilato tre pullover uno sopra l’altro. Il quarto l’ho convinto a legarlo intorno alla vita. Poi si è messo anche la giacca di finta pelle.

In Svezia fa freddo, no? E’ la prima frase compiuta in italiano che gli ho sentito dire. E dentro l’aeroporto c’era l’aria condizionata, così non è morto di caldo. Le tre al banco l’hanno guardato malissimo ma non hanno potuto obiettare nulla, mentre buttava lo zaino nella spazzatura. Dopo, ai controlli, si è dovuto togliere e rimettere parecchi strati.

Così, Mahmoud, è partito per la Svezia.
E mi ha lasciato lì a chiedermi: ma ‘sti greci che girerebbero l’Europa con documenti falsi?
Chi sono? Anarchici? Neonazisti?
Qualcuno ne ha mai parlato?
Mi pare di no.

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