Un amico mi fa visitare una casa colonica dei primi del 900 nelle campagne del litorale romano. Mi mostra le pareti spesse, le grosse travi di legno che sostengono il soffitto, i due patii, che guardano uno a oriente e l’altro a occidente, quindi l’alba e il tramonto. Fa fresco anche se fuori ci saranno 40 gradi.
L’amico dice: però, le sapevano costruire le case. Si parla tanto male del fascismo ma certe cose le facevano come si deve.
Eh già. Lì, in quella bella casa, non riesco a replicare. E poi qualcosa risuona. Amo l’architettura del Foro Italico e dell’Eur, soprattutto il Palazzo delle Civiltà. Quindi ci penso. La risposta arriva facile e da sé, col tempo: il vizio del fascismo era tutto nella parola e nel gesto. I discorsi di Mussolini. La sua mimica. Quella supposta grandezza disponeva forse di architetti e artisti adeguati. Forse perfino di scienziati. Ma la lingua era quella di una nazione rimasta indietro, una provincia composta a sua volta di tante provincie. E la lingua, si sa, è tutto.
Mi capita fra le mani un libro di Stefan Zweig, lo scrittore che ha narrato la fine dell’impero austroungarico, su Erasmo da Rotterdam. La traduzione italiana è del 1937. Leggo il risvolto di copertina:
Stefan Zweig, l’ultramoderno creatore di novelle, l’acuto autore di saggi critici, il trascinante interprete psicologico della storia….
Il fascismo. Gli annunci dell’Eiar.
Chiunque ricorda alle elementari o al liceo la fobia degli insegnanti per gli aggettivi. Ancora nelle scuole di giornalismo e nei libri su come si scrive, la prima esortazione è sempre quella: limitare gli aggettivi. Una fuga dal fascismo e dalla sua ridondanza. Che poi era un modo per ribadire, sottolineare, affermare. Insomma, una forma di insicurezza.
Anche la scrittura italiana degli anni ’50 e ’60, in gran parte, è un tentativo di inventare una lingua nuova e allontanarsi da quella del fascismo: i dialetti di Gadda, la controparodia chic di Arbasino, l’ironia di Moravia.
Prendiamo invece l’inizio di Menzogna e Sortilegio, il primo romanzo di Elsa Morante, del 1948:
Guardo la gracile, nervosa persona infagottata nel solito abito rossigno. Le nere trecce torreggianti sul suo capo in una foggia antiquata e negligente, il suo volto patito, con la pelle alquanto scura e gli occhi grandi e accesi, che paion sempre aspettare incanti e apparizioni.
Non voglio dire che la prosa di Elsa Morante sia quella del fascismo. Ma è l’unica ad essere partita proprio da lì, come dal punto più naturale. Con un gesto da maga, ha afferrato, per la punta delle dita, quel tessuto pacchiano e sporco di sangue e lo ha rovesciato in uno scialle variopinto e pieno di storie. Ha capito che quello stile poteva essere piegato a raccontare favole fantastiche. Molto dell’umorismo dei libri della Morante nasce dal contrasto tra una scritttura altisonante e i protagonisti dei romanzi: prostitute, nobili decaduti, poveri diavoli innamorati senza speranza, ragazzini ignari di tutto.
L’italia come era e l’Italia come si era sognata.
Non voglio seguire adesso tutti gli sviluppi e gli esiti di quello stile.
Voglio solo dire che Menzogna e Sortilegio mi sembra, di conseguenza, il romanzo italiano piu’ bello del secondo dopoguerra, la Morante lo scrittore più importante. Ancora oggi, a cento anni dalla sua nascita.
Caro il mio Filippo, con affetto ti dico che hai sbagliato mestiere: il letterato, possibilmente lo scrittore, “dovevi fare” (da leggere con accento siculo)